Quale differenza c’è tra un uomo di superficie e un uomo superficiale? Questa è una domanda importante perché vede, l’uomo superficiale è colui che compie un’azione, fa un’affermazione o dice qualcosa che non è sufficientemente critico, che non è razionale. Insomma l’uomo superficiale è un uomo che può essere profondo, ma che ha detto una cosa banale.
È una persona debole, ma può essere forte. L’uomo di superficie, invece, è quasi una caratteristica di specie, ecco perché la chiamo antropologica. È proprio l’incapacità di uscire dalla propria cute. È come se fosse su una grande superficie in cui riesce a muoversi, ma senza mai uscirne. Uso questo termine, se lei vuole, mettendolo insieme ad altre definizioni, ad “icone” che ci sono state in altri periodi storici. Marcuse parlava di uomo a una dimensione, Musil de l’uomo senza qualità, Bauman parla adesso della società liquida. È proprio qualche cosa che caratterizza questo momento storico. Non caratterizza, com’è avvenuto nel passato, alcuni, ma ci caratterizza tutti. Tanto è vero che non c’è nessuno, compreso il sottoscritto, che non pone attenzione, e certamente eccessiva rispetto solo a qualche decennio fa, a quella che è la propria superficie. È come se avvertisse che: se non ha la cute liscia, se non ha la cravatta, come nel caso mio, è come se non esistesse. La nostra esistenza, ormai, è legata alla cute. È come se nessuno ci chiedesse niente di cosa siamo noi internamente, cosa pensiamo, come viviamo i sentimenti. Interessa solo come appari. Questo è un mondo della totale apparenza con l’incapacità di andare dentro, di andare nella nostra interiorità. Ecco perché dico, e qui senza mezzi termini, che è sparito tutto, dentro non c’è niente. Per chi credeva che dentro, da qualche parte, ci fosse l’anima: “certamente non la trova”.
Quindi L’uomo di superficie non è solo narcisismo, ci sono anche delle conseguenze sociali o economiche per la società? Certo non è narcisismo. Perché il narcisismo è il bisogno in fondo di relazione. Il Narciso, quando si specchia nel lago, vede che è bello, ma non si riconosce, e in qualche modo sembra interessato, mentre ciascuno di noi oggi è interessato alla propria cute, alla propria bellezza. Tutto questo ha un effetto, io ritengo, drammatico perché non è nemmeno una bellezza che ci permette di amare. Vede, per amare bisogna essere molto attratti dall’altro, ma non per guardarlo solo, ma per fare un progetto, per stabilire un legame. L’amore è un sentimento cioè è un io che si lega a un altro io, non è una cute che aderisce a un’altra cute. Tutto questo non crea affetti, crea semplicemente un contatto sensoriale tra due cuti. Scompare l’amore. Ciò che ci muove è semplicemente questa grande anatomia, questo senso della bellezza e delle forme della cute. Ci sono persone che vivono per il naso, che vivono per le labbra e naturalmente per altre parti del corpo cui dedicano tutto.
A questo fallimento educativo siamo arrivati di più per colpa della scuola, della famiglia o, perché no, dei mezzi d’informazione? Io penso che l’educazione sia veramente morta. Voglio subito partire da un esempio. Si dice bisogna che il padre sia autoritario, autorevole, che stia con i figlioli come se l’educazione familiare dovesse fondarsi solo su questo. Non può essere il padre, oggi, una figura di grande significato educativo, perché il figliolo lo vedrà che cambia di umore, lo vedrà incostante, lo vedrà frustrato. Durante l’adolescenza non appare il padre “simpatico” e poi non è l’unico punto di riferimento. La scuola offre altri punti di riferimento, parlo di esempi, magari il professore di filosofia si, quello di matematica no. C’è la televisione. Ci sono gli amici. Non si può più parlare di educazione perché i punti di riferimento sono troppi. C’è stato un periodo di educazione senza padri, senza nessuno. Oggi le figure che si propongono sono talmente tante che c’è una diseducazione per eccesso di modelli.
Ipse dixit: aforismi e frasi. L’uomo di superficie galleggia sulla società liquida spinto da un desiderio morto. Homo sapiens sapiens, pensi quanto stupidi bisogna essere per definirci due volte sapiens.
Biografia Vittorino Andreoli è nato a Verona nel 1940. Consegue la laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Padova. Ha condotto ricerche presso l’Istituto di Farmacologia all’Università di Milano, sull’encefalo e in particolare sul rapporto tra neurobiologia e comportamento animale e umano. Dopo la laurea ha lavorato all’Università di Cambridge, alla Cornell Medical College di New York e all’Harvard University. In seguito sposta i suoi interessi verso la neurologia e la psichiatria, discipline di cui diventa specialista.
Bibliografia Tra le sue pubblicazioni: Il medico e la droga (1979), Un secolo di follia (1991) La vita digitale (2007), L’uomo di vetro (Gennaio 2008). Da citare anche sul dolore: Capire il dolore. Perché la sofferenza lasci spazio alla gioia (2003). Saggi come: I miei matti. Ricordi e storie di un medico della mente (2004) Le nostre paure (2010) Follia e santità (2010). Sull’adolescenza e sui giovani: Giovani. Sfida, rivolta, speranze, futuro. Il suo ultimo libro è: L’uomo di superficie
(2012.) (tutti i proventi delle vendite sono devoluti alla associazione cultrale)